Una caratteristica che il popolo aveva subito notato in fra Nicola era il suo continuo silenzio. Rare infatti erano le parole che egli pronunciava nei suoi lunghi giri in città. “… Fra Nicola amava il silenzio, parlando solo per necessità” si legge nel processo informativo diocesano. Ecco una testimonianza: “Per fra Nicola da Gèsturi la santità fu silenzio. I suoi silenzi erano di una natura singolare, da trasferirsi fuori del mondo di ogni giorno. Il silenzio teneva per lui luogo del ringraziamento quando gli si dava; il silenzio era rimprovero per chi, potendo, non dava; il silenzio era risposta alle domande inutili o a quelle che non potevano avere risposta. Solo ricordando la volontà di Dio, egli rompeva il silenzio”.
I confratelli che hanno vissuto a lungo con lui ricordano questa caratteristica di fra Nicola. Di lui in particolare ebbe a testimoniare il padre Federico da Baselga, che per cinque anni fu commissario provinciale in Sardegna: “Di fra Nicola ricordo sempre il misterioso silenzio…”. Silenzio fuori e, soprattutto, dentro il convento. È proprio su questo silenzio che qualcuno si è chiesto: “Perché tanto silenzio nella vita di fra Nicola? Era il suo temperamento che lo portava ad essere
così avaro di parole, com’è caratteristica di tanti Sardi, gelosi dei propri pensieri e sentimenti, quasi “complessati” di fronte al peso delle parole? No! perché il suo era un silenzio particolare: un modo di esprimersi liberato dal superfluo, un modo di badare alle cose essenziali senza distrazioni, senza quei “fiori” letterari che sono spesso la maschera con cui si cerca di nascondere o di riempire il vuoto interiore. In fra Nicola il silenzio è un punto di arrivo, non di partenza: è una virtù grandissima, non una mancanza”.
Certo, fra Nicola era parco di parole, ma era proprio attraverso il silenzio che egli operava il bene a favore del prossimo e sempre “… la sua stessa presenza era un silenzio ammonitore”. Era dietro questo silenzio che fra Nicola nascondeva gelosamente le più eroiche virtù: la sua obbedienza sempre pronta, la sua umiltà profondissima, soprattutto la sua povertà assoluta, come ancora oggi testimonia la sua cella conservata intatta nel convento di Cagliari, meta di numerosi visitatori che inorridiscono dinanzi a tanta povertà: un tavolaccio per letto, la spalliera di una sedia per cuscino… La povertà fu una delle grandi virtù di fra Nicola, che lo spingeva ad usare abiti e sandali rozzi e già usati da altri, a conservare gelosamente i biglietti del tram, che qualche volta era obbligato a prendere, per renderne esatto conto al superiore, ad usare piccoli pezzi di carta, già scartati da altri, per scrivervi sopra i pensieri o qualche preghiera. Era nel silenzio più assoluto che fra Nicola trascorreva interminabili ore del giorno e della notte assorto in preghiera, davanti a Gesù Sacramentato o nella cappella dell’Immacolata, suo abituale rifugio dopo il rientro dalla questua.
Questo silenzio fra Nicola lo ruppe il primo giugno 1958 quando, stremato di forze, poco dopo le nove, si presentò al padre guardiano (nel linguaggio dei frati cappuccini significa “superiore”) e gli disse con tutta franchezza e semplicità: “Padre guardiano, non ne posso più!”, chiedendogli di essere esonerato dall’incarico della questua. Il padre guardiano capì subito che fra Nicola si avviava ormai verso la fine e lo fece accogliere nell’infermeria del convento. I fatti gli diedero ragione. Il giorno dopo – 2 giugno – lo stato di salute di fra Nicola si aggravò a tal punto che il medico chiamato d’urgenza,
avendogli riscontrato un’ernia crurale strozzata, ne ordinò l’immediato ricovero nella vicina Clinica Lay, dove il mattino del giorno dopo fu operato d’urgenza. Fu tutto inutile. Lo stesso fra Nicola, consapevole della gravità del male, nel pomeriggio dello stesso giorno chiese l’Unzione degli infermi e il Viatico, rispondendo egli stesso alle preghiere e recitando il “confiteor”.
Trascorsero così altri quattro giorni di ansie per i confratelli, che lo vegliavano amorevolmente, e di atroci dolori per fra Nicola, il quale ripeteva spesso: “Preghiamo, preghiamo”, intensificando il suo spirito di preghiera, di sottomissione alla volontà di Dio e di accettazione della croce.
Il giorno sette, perduta ormai ogni speranza di salvarlo, i superiori disposero il suo trasferimento dalla Clinica all’infermeria del convento. E qui “… confortato da quasi tutti i religiosi del convento, che in lacrime recitavano le preghiere degli agonizzanti, tenendo stretto tra le mani il Crocifisso, spirava serenamente nel bacio del Signore. Erano le ore 0.15 esatte dell’otto giugno”.
La notizia della sua morte si sparse in un baleno e, al mattino, tutti i giornali locali ne davano notizia in prima pagina, a grandi lettere. “È morto un santo” fu il commento unanime di tutti. Fin dal primo mattino una folla immensa si riversò nel convento e nella chiesa, chiedendo di vedere la salma di fra Nicola. Nei giorni seguenti, durante i quali la salma rimase in chiesa, esposta alla venerazione del popolo, la ressa di gente fu tanta che si dovette chiamare la forza pubblica per disciplinare l’incalzante afflusso: tutti volevano vedere e salutare per l’ultima volta l’umile cappuccino che per tanti anni avevano visto passare per le loro strade. Non mancò nessuno: dalle massime autorità civili e religiose, al più umile operaio e ai bambini delle scuole. I funerali si svolsero “il giorno dieci alle 17, partendo dalla nostra chiesa. Popolo, autorità, clero e Ordini religiosi parteciparono in numero rilevante. Si calcolò che circa sessantamila persone furono presenti. La bara fu portata a spalla dai religiosi e da laici, procedendo lentamente tra una pioggia incessante di fiori. Per più ore il traffico cittadino, dove passava il corteo, dovette essere interrotto. Non fu un funerale, ma un solenne e generale trionfo”.
Sulla sua tomba, nel cimitero di Bonaria, furono tracciate queste semplici parole: “Fra Nicola – Cap- puccino – 1882-1958”.